
Studio Legale e Tributario Associato Soraci e Venuto
Italgomme c. Italia - La sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che potrebbe cambiare le regole del diritto tributario italiano per come oggi lo conosciamo
Parole chiave: diritti del contribuente – accessi, ispezioni e verifiche fiscali – tutela della vita privata – garanzie del giusto processo tributario – diritto al silenzio.
​
La sentenza Italgomme pronunciata dalla Corte EDU, 6 febbraio 2025, nel condannare l’Italia per la gestione inadeguata delle indagini tributarie mette in luce le criticità del diritto tributario italiano. Le principali ravvisate dalla Corte riguardano non tanto la normativa, che potrebbe essere interpretata in modo conforme ai principi della Corte, quanto le pratiche amministrative e la giurisprudenza tributaria, che non hanno garantito e non garantiscono una tutela efficace ai contribuenti.
​
Questa analisi si concentra in particolare su quattro aspetti: 1. diritti del contribuente e i correlati poteri delle Agenzie tributarie - 2. controllo giurisdizionale per garantire l’effettività dei mezzi di tutela - 3. rapporto tra diritto sostanziale, procedurale e processuale - 4. diritto al silenzio
1. Diritti del contribuente e i correlati poteri delle Agenzie tributarie
La prima area coinvolta dalla decisione riguarda la disciplina di accessi, ispezioni e verifiche, in relazione alla tutela della vita privata sancita dall’art. 8 CEDU.
La giurisprudenza internazionale ha ormai consolidato il principio secondo cui il concetto di domicilio e sfera privata non deve essere inteso in senso restrittivo, limitandolo solo agli spazi fisici o alla sfera personale e familiare, ma deve estendersi anche alle attività economiche, commerciali, professionali e persino all’ambito digitale.
La Corte non sostiene che la tutela debba avere ovunque la stessa intensità, ammettendo che la sfera personale e familiare meriti una protezione più forte. Tuttavia, considera inaccettabile una "non tutela" della sfera economico-patrimoniale privata o una protezione così debole da risultare inefficace, in base a un giudizio di valore che individui il nucleo essenziale e indefettibile di essa.
Inoltre, la sentenza sottolinea che tale tutela possa variare anche in rapporto a due elementi:
-
interesse leso dall’atto intrusivo della sfera privata;
-
modalità di realizzazione di tale interesse contrapposto.
Dal primo punto di vista, si applica il principio di proporzionalità: un’indagine che incide sulla sfera privata deve avere un fine legittimo, quindi essere prevista dalla legge, ma deve anche essere utile a tale scopo e attuarsi con il mezzo meno invasivo possibile, bilanciando l’efficacia del controllo con la tutela dei diritti del contribuente.
Dal secondo punto di vista, il livello di protezione dipende anche dal grado di intensità dell’intrusione: la Corte riconosce che le garanzie possono variare, ad esempio, a seconda che l’indagine implichi un’esecuzione coattiva o si limiti a richieste di documentazione.
La Corte EDU esaminando il diritto vivente italiano, evidenzia una disparità eccessiva tra la tutela della sfera personale e familiare – dove l’accesso è consentito solo con l’autorizzazione del PM e in presenza di gravi indizi di violazione – e la tutela degli spazi della vita privata economica.
La disciplina italiana prevede infatti che, all’inizio di un accesso a luoghi di attività economica, sia fornita una giustificazione delle ragioni dell’ispezione, anche in relazione al comma 1 dell’art. 12 della Legge n. 212/2000, c.d. Statuto dei diritti del contribuente. La c.d. lettera di incarico dovrebbe garantire sia il controllo interno dell’Amministrazione sia la trasparenza nei confronti del contribuente, evitando arbitrarietà della verifica[1].
Un ulteriore problema riguarda le conseguenze della violazione dell’art. 12, comma 2, dello Statuto, e l’omessa attivazione delle garanzie contenute nella norma. L’interpretazione più corretta è che la violazione possa portare all’invalidità dell’avviso di accertamento successivo, qualora il contribuente riesca dimostrare un concreto pregiudizio al suo interesse. Tuttavia, la giurisprudenza non ha sempre valorizzato questo principio e spesso non ha ritenuto rilevante né che il contribuente ricevesse l’autorizzazione durante le verifiche né che essa contenesse i presupposti dell’accesso. Inoltre, non esiste un orientamento consolidato che sancisca l’invalidità dell’atto anche in caso di accesso arbitrario, purché siano state trovate prove di evasione fiscale.
La Corte EDU, esclusa la necessità di un controllo giurisdizionale preventivo, che potrebbe ostacolare l’efficienza dei controlli fiscali e che sarebbe proporzionato solo in caso di iniziative coercitive e lesive di interessi particolarmente delicati, evidenzia come nell’assetto legislativo e giurisprudenziale italiano, si insinuino delle violazioni dell’art. 8 CEDU, imponendo in concreto che:
-
l’accesso alla sfera privata (personale o economica) deve basarsi su elementi specifici e concreti, non su generiche esigenze investigative. Elementi che possono anche non derivare da notizie specifiche già acquisite direttamente contro il contribuente, ma debbono comunque essere concrete e riguardarlo, in modo da assicurare un fondamento proporzionato all’accesso;
-
tali fondamenti, determinati e concreti, devono essere trasparentemente sottoposti al soggetto che subisce la verifica, all’inizio di essa;
-
la violazione di tali principi deve avere un impatto sull’eventuale provvedimento finale.
Questi principi avrebbero potuto essere rispettati con una semplice interpretazione conforme delle norme già esistenti, senza necessità di nuove leggi. Nessuna disposizione italiana nega queste garanzie: lo Statuto del contribuente prevede già l’obbligo di informazione e di autorizzazione, e l’inutilizzabilità delle prove acquisite illegalmente è un principio consolidato nel diritto italiano.
A tal fine è necessario un deciso cambiamento nell’approccio interpretativo della normativa fiscale, senza che tuttavia sia indispensabile un intervento legislativo, essendo la sentenza della Corte EDU è immediatamente applicabile ai giudizi in corso, purché la violazione sia stata tempestivamente contestata nel ricorso o in sede di motivi aggiunti.
La recente riforma dello Statuto del contribuente ha inoltre introdotto un principio chiave all’art. 7-quinquies: la sanzione dell’inutilizzabilità delle prove acquisite in violazione di legge, il quale comporta l’invalidità dell’accertamento fiscale solo se la prova illegittima è determinante.
Pertanto, il mancato adeguamento della giurisprudenza italiana alla sentenza della Corte EDU potrebbe configurare una violazione da parte dello Stato italiano, qualora le autorità amministrative o giudiziarie continuassero a disapplicare i principi stabiliti.
​
2. Controllo giurisdizionale per garantire l’effettività dei mezzi di tutela
Il secondo aspetto della decisione della Corte riguarda l'effettività dei mezzi di tutela contro le eventuali violazioni commesse durante le indagini e, in particolare, il rispetto dei principi evidenziati sopra.
Fino ad oggi, per quanto riguarda l’impatto delle violazioni sulla validità del provvedimento finale, la giurisprudenza ha ritenuto, in via prevalente, che solo la violazione delle norme concernenti l’autorizzazione del PM per gli accessi nei luoghi di privata dimora personale potesse determinare la sanzione della inutilizzabilità, svalutando, negli altri casi, la conseguenza della violazione a una mera irregolarità (seppur con qualche oscillazione).
Oltre alla scarsa incisività della tutela successiva rivolta contro l’atto di accertamento, gravi incertezze gravano anche sull’effettività della tutela sotto altri profili. Le indagini, infatti, possono ledere gli interessi del contribuente senza che ne segua un avviso di accertamento. Inoltre, può accadere che all’istruttoria segua un avviso di accertamento, ma la violazione abbia leso gli interessi di un soggetto diverso dal contribuente.
Nel primo caso, il contribuente subisce una lesione senza avere un provvedimento da impugnare; nel secondo, al contrario, l’avviso di accertamento è impugnabile, ma il soggetto direttamente leso non è il contribuente. In entrambi i casi, la tutela successiva non può essere attivata. Inoltre, l’indagine potrebbe ledere interessi diversi da quelli tributari, compromessi in modo irrimediabile anche se non seguisse o dovesse essere annullato un accertamento tributario.
In questi tre casi, una tutela, anche se immediata e inibitoria, potrebbe risultare necessaria per garantire un’effettiva protezione dei diritti coinvolti. Ciò è particolarmente rilevante quando gli atti di indagine sono suscettibili di attuazione coattiva. Qualora il contribuente sia chiamato a rispondere a una richiesta che ritiene illegittima (ad esempio, dichiarare certe circostanze o consegnare documenti occultati), può semplicemente rifiutarsi e rimanere inerte. In un secondo momento, nella fase in cui si esamina la legittimità del suo rifiuto (ai fini dell’applicazione di sanzioni o preclusioni), egli può pienamente difendersi, senza aver ancora subito alcuna lesione. Diverso è il caso in cui si tratti di iniziative suscettibili di esecuzione coattiva. Se il contribuente si rifiuta di aprire una cassaforte, gli operatori, legittimamente autorizzati dal PM, possono procedere alla sua forzatura e anche se il contribuente dimostrasse successivamente l’illegittimità dell’iniziativa il danno sarebbe ormai irreparabile.
Abbiamo quindi, da un lato il principio della tassatività degli atti impugnabili davanti alle Commissioni tributarie (tra cui non rientrano gli atti di indagine) e, dall’altro, la difficoltà di configurare una giurisdizione alternativa a quella tributaria.
Un primo orientamento della giurisprudenza vuole che prevalga, per l’individuazione della giurisdizione, il fatto che si tratterebbe di atti lesivi occasionati dall’accertamento tributario, e quindi la giurisdizione sarebbe tributaria. Tuttavia, tale interpretazione crea un’importante confusione tra i diritti civili lesi dall’istruttoria tributaria e il diritto all’integrità del proprio patrimonio, inciso dal tributo: si tratta di sacrifici distinti, sottoposti a regole e garanzie diverse e potenzialmente di diversa intensità.
Un altro orientamento giurisprudenziale[2] riconosce la giurisdizione tributaria solo nel caso in cui venga emanato un avviso di accertamento, altrimenti ammettendo la competenza del giudice ordinario. Per coerenza, tale impostazione dovrebbe comportare la possibilità di adire il giudice ordinario non solo al termine del procedimento e in assenza di un avviso di accertamento, ma anche in via immediata. Tuttavia, la giurisprudenza non si è ancora consolidata in questo senso, lasciando irrisolto il problema della tutela immediata, anche perché l’unico strumento processuale attualmente esperibile (art. 700 c.p.c.) non sembra del tutto idoneo a garantire un rimedio efficace e tempestivo.
Su questo assetto sostanzialmente lesivo dei diritti fondamentali interviene la Corte EDU con la sentenza in esame, affermando che deve essere garantito un rimedio giurisdizionale effettivo sin dall’inizio o durante l’indagine, indipendentemente dall’impugnazione degli esiti.
Questa parte della decisione appare particolarmente complessa da superare, in quanto tale tutela non sembra facilmente ricavabile dalle norme vigenti, rendendosi necessario un intervento legislativo urgente, al fine di evitare il protrarsi della violazione e l’aggravarsi della responsabilità dello Stato.
​
3. Rapporto tra diritto sostanziale, procedurale e processuale
Merita un analisi pur non essendo entrata nella decisione della Corte, la dissenting opinion del giudice Serghides, il quale concentra la sua attenzione sul fatto che la questione ulteriore sollevata dai ricorrenti, relativa alla denunciata violazione del diritto a un giusto processo (art. 6 CEDU) inteso come diritto a un ricorso effettivo.
In primis sarebbe necessario superare la giurisprudenza della CEDU in materia di giusto processo e diritto tributario, consolidata fin dalla sentenza Ferrazzini del 2001. Il persistente rifiuto di estendere le garanzie del giusto processo al processo tributario meriterebbe di essere superato per molteplici ragioni. L’attuale orientamento giurisprudenziale si basa sull’assunto secondo cui il diritto tributario sarebbe espressione di un potere sovrano non riconducibile ai principi del giusto processo. Soluzione che appare insoddisfacente sotto diversi profili.
In primo luogo, è illogica: anche se le scelte del legislatore in materia fiscale fossero esclusivamente politiche, non si comprende per quale motivo non dovrebbe essere garantito un controllo giurisdizionale equo sulla loro attuazione. In secondo luogo, tale orientamento risulta ampiamente eroso dalla stessa giurisprudenza, che ha riconosciuto l’applicabilità dei parametri CEDU sia alle sanzioni tributarie, sia ai procedimenti, sia perfino alle norme tributarie.
Ne consegue un ulteriore paradosso: se anche il diritto tributario sostanziale non è del tutto estraneo alla Convenzione, perché dovrebbe esserlo quello processuale?
Infine, questa impostazione appare rivedibile anche alla luce di un’altra considerazione: da un lato, l’art. 111 Cost. non sembra ammettere esclusioni dall’applicazione del principio del giusto processo per alcun tipo di giudizio; dall’altro, tale principio si pone in termini unitari rispetto a tutti i processi. Pertanto, non è irragionevole sostenere (o almeno argomentare) che, nella misura in cui il concetto di giusto processo derivante dalla CEDU incide sui processi non tributari italiani, esso debba necessariamente estendersi anche al processo tributario, per effetto del principio di uguaglianza e della portata generale dell’art. 111 Cost.
L’opinione dissenziente è inoltre significativa sotto un altro profilo: la censura della tendenza a far prevalere le questioni di diritto sostanziale su quelle procedurali. Si tratta di un monito particolarmente rilevante in un contesto in cui si assiste a una crescente svalutazione delle garanzie procedurali, ritenendo prevalenti fini e risultati, esponendo al grave rischio sistemico di dimenticare che le norme processuali non sono meri formalismi ma rappresentano elementi essenziali di civiltà giuridica senza le quali viene meno la garanzia che proprio l’art. 6 CEDU dovrebbe assicurare.
​
4. ​Diritto al silenzio
Infine, pur senza affrontarlo in modo approfondito, la sentenza tocca il tema del diritto al silenzio, in particolare riguardo i poteri di accesso, seppur tralasciando i connessi doveri di cooperazione anche in occasione degli accessi. Il punto rimane in ombra, ma è particolarmente delicato: il diritto al silenzio, seppur con qualche resistenza, sta progressivamente ottenendo riconoscimento nella giurisprudenza italiana, incontrando tuttavia degli ostacoli quando si tratta di tributi proprio per via dell’interpretazione del dovere di cooperazione in capo al contribuente.
La Corte costituzionale ha infatti affermato che le garanzie costituzionali previste per la materia penale devono estendersi anche alle sanzioni derivanti da procedimenti amministrativi, purché queste assumano una natura punitiva secondo i criteri stabiliti dalla giurisprudenza della Corte EDU[3].
Tuttavia, la stessa Corte costituzionale sembra aver escluso l’applicabilità del diritto a non cooperare rispetto alle prove precostituite prima della richiesta di collaborazione, ritenendo che tali prove debbano comunque essere consegnate all’autorità inquirente, anche successivamente alla violazione, di fatto svuotando in larga parte la garanzia del diritto al silenzio. Sul punto la Corte sembra confondere il momento della collaborazione con il suo oggetto. Tale distinzione si perde se si ritiene che il diritto al silenzio limiti non le condotte di collaborazione successive all’illecito, ma soltanto quelle aventi ad oggetto le prove dell’illecito formatesi successivamente.
Ritenere doveroso consegnare all’accusa, dopo la commissione di un illecito, prove formatesi in precedenza significa trascurare una distinzione fondamentale. Come si accennava, vi è una differenza tra l’obbligo di collaborare nella fase anteriore alla violazione – ad esempio documentando la propria ricchezza attraverso fatture, contabilità, annotazioni, dichiarazioni – e l’atto di contribuire all’accertamento di una violazione già commessa. La circostanza che un soggetto sia tenuto a rispettare gli obblighi tributari non implica una confessione forzata della propria evasione fiscale, così come il dovere di non uccidere non comporta l’obbligo di confessare un omicidio.
Anche quando la collaborazione ex post riguardi prove formatesi in precedenza, il comportamento collaborativo consiste nella loro consegna, che rappresenta un atto successivo e distinto rispetto alla loro formazione. La “consegna” è un’azione autonoma e successiva rispetto alla creazione della prova (fatturazione, annotazione contabile, ecc.). Una diversa impostazione costituisce uno slittamento logico e una soluzione non perfettamente proporzionata. Del resto, ragionando così, si dovrebbe ritenere che nel processo penale l’indagato non potrebbe, in generale, tacere al P.M. o al giudice elementi della propria colpevolezza, ma sarebbe obbligato a consegnare tutte le tracce e prove della sua colpevolezza, se storicamente formatesi prima della violazione.
03/03/2025 - Dott. Francesco Soraci
​
[1] La giurisprudenza italiana non ha garantito un’applicazione particolarmente efficace di queste tutele. In alcuni casi, la Cassazione ha ritenuto illegittimo l’accesso della Guardia di Finanza ai locali aziendali senza un’autorizzazione scritta del Comandante (Cass. 29 novembre 2001, n. 15209). In altri, ha affermato che l’autorizzazione è necessaria per gli ispettori civili, ma non per la Guardia di Finanza, senza chiarire le conseguenze di un’omissione (Cass. 28 aprile 2010, n. 10137).
[2] [2] Cass., SS.UU., 2 maggio 2016, n. 8587.
[3] Corte cost., ord. n. 117/2019, punto 7.1 del Considerato in diritto, richiamata dalla stessa Corte nella sent. n. 84/2021, par. 3.2.